La biologia dell’amore

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Le farfalle nello stomaco, il batticuore, le mani che sudano, l’insonnia… che mi stia venendo un accidente?

Ah, no. È l’amore che bussa alla porta. 

Da questo punto di vista ogni possibile e immaginabile forma artistica ci consente di esprimere quel pazzo sentimento dal quale siamo “affetti”.

Ma se il nostro fisico offre una vasta gamma di piaceri/fastidi, come si comporta, invece, il cervello (e pure tutto il resto)?

Vaïnui de Castelbajac

Dal punto di vista chimico-biologico l’innamoramento coinvolge ben dodici aeree del cervello e provocano il rilascio di sostanze i cui effetti sono molto simili a quelli di alcune droghe o attività e sport estremi.

In “Why We love: The Nature and Chemistry of Romantic Love” dell’antropologa statunitense Helen Fisher, che studia i comportamenti umani e l’amore ormai da trentacinque anni, viene descritto il meccanismo scientifico attraverso il quale nasce la famosa “chimica” tra due individui, l’alterazione fisiologica in questa particolare condizione e per quale motivo uomini e donne si innamorano attraverso stimoli differenti.

Definiamo l’amore come un sentimento ma, tecnicamente, è sbagliato poiché si tratta di un impulso(come può esserlo la necessità di mangiare o dormire). Quando siamo attratti da qualcuno si attivano delle aree specifiche del nostro cervello: Il lobo dell’insula (in parte responsabile di alcuni aspetti legati all’emotività, alla memoria e alla conversione di segnali in stimoli fisiologici), la corteccia cingolata anteriore (responsabile, a livello inconscio, dei normali problemi che un individuo deve affrontare e il “campanello d’allarme” del pericolo, del dolore e di quel senso d’inadeguatezza che talvolta ci pervade), l’ippocampo (quello che trasforma la memoria a breve termine in memoria a lungo termine, la percezione spaziale ovvero l’elaborazione dello spazio nell’ambiente circostante e delle funzioni olfattive), e infine parte del corpo striato (coinvolto nella regolazione del movimento) e del nucleus accumbens (colui che si occupa dei processi cognitivi di ricompensa, della motivazione, delle risposte positive a stimoli piacevoli, responsabile, in parte del cosiddetto “effetto placebo” e molto altro ancora).

Come potete vedere ognuna di queste zone gioca un ruolo importante nel processo d’innamoramento.

La Fisher ha riscontrato tre fasi che attraversiamo nel corso di una relazione: il desiderio, l’attrazione e l’attaccamento.

Nella prima fase il desiderio è scaturito dal testosterone (negli uomini) e dagli estrogeni (nelle donne), essi ci permettono di provare interesse per l’altra persona.

Nella seconda fase, invece, subentra l’attrazione scatenata dalle principali sostanze chimiche quali l’adrenalina, la dopamina e la serotonina, i veri responsabili dell’amore che stiamo provando. Nello specifico l’adrenalina è quella che ci fa sentire lo stomaco in subbuglio (ah, le farfalle!), il cuore super attivo e le mani sudaticce.

L’arrivo della dopamina provoca euforia, insonnia, mancanza di appetito e ci fa sviluppare una “dipendenza” verso il nostro partner.

All’appello non può mancare anche l’intromissione della serotonina, che abbassa i suoi livelli di produzione rispetto alla norma e ci fa pensare costantemente alla persona amata.

Nella terza fase, nonché l’ultima, troviamo l’attaccamento, ovvero la voglia di stare l’uno accanto all’altro che ci rende felici e appagati. Tali stati d’animo sono resi possibili dalla presenza di ormoni come l’ossitocina e la vasopressina, entrambi incoraggiati dal contatto fisico.

Come se tutto ciò non bastasse, l’antropologa, grazie all’utilizzo di una risonanza magnetica, ha scoperto che quando siamo innamorati  la corteccia prefrontale, regione responsabile delle nostre facoltà di giudizio, si spegne. Così come le aree preposte alla sensazione di paura o alla percezione dei pensieri negativi.

Basta una semplice foto dell’amato/a e il gioco è fatto!

E come scriveva Charles Bukowski, “Potrei anche dire che l’amore è come l’alcool. Lo provi una volta, ti fa girare la testa, ne vuoi ancora e ancora. Ti fa sentire male, tanto male che dirai di non voler provare mai più. Ma poi, al prossimo bicchiere ci ricascherai. E non dirai di no. “

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