Storie di ordinaria follia (pag. 288-291)

Facebooktwitterpinteresttumblr

“senti rabbino, sto cercando di vedere la cosa da tutti i punti di vista, non solo dal mio. la classe dirigente è molto figa. devi ammetterlo. parlo con loro molto spesso. so che ho a che fare con gente dalla tempra molto dura. guarda cosa hanno fatto a Spock. ai due Kennedy. a Martin Luther King. a Malcolm X. fatti la lista da solo. è lunghissima. non puoi muoverti troppo velocemente con i pezzi grossi o ti ritroverai a fischiettare Dixie attraverso un rotolo di carta igienica vuoto al cimitero di Forest Lawn. ma le cose stanno cambiando. i giovani la pensano meglio di come la pensavano i vecchi, e i vecchi stanno morendo. c’è pur sempre un modo di risolvere le cose senza uccidere nessuno.”

“ti hanno fatto tornare sui tuoi passi. invece io dico: ‘Vittoria o Morte’.”

“questo era il motto di Hitler. alla fine gli è toccata la morte.”

“cosa c’è che non va nella morte?”

“la domanda che dovremmo porci stasera è cosa c’è che non va nella tua vita.”

“tu scrivi una raccolta come TERROR STREET e poi vuoi andartene in giro a stringere le mani agli assassini.”

“ci siamo stretti la mano, rabbino?”

“parli tanto per far prendere fiato alla bocca, mentre crudeltà inenarrabili stanno succedendo proprio in questo istante.”

“ti riferisci al ragno con la mosca o al gatto con il topo?”

“mi riferisco alla lotta di Uomo contro Uomo quando l’Uomo ha senz’altro più sale in zucca di così.”

“c’è qualcosa di vero in quello che dici.”

“cazzo, sì, mica sei l’unico ad avere la bocca.”

“cosa dici che dovremmo fare? bruciare la città?”

“no, bruciare la nazione.”

“come dico, sarai un diavolo di rabbino.”

“grazie.”

“e dopo aver bruciato la nazione, con cosa la rimpiazziamo?”

“mi stai dicendo che la rivoluzione americana ha fallito, che la rivoluzione francese ha fallito, che la rivoluzione russa ha fallito?”

“non del tutto. ma non hanno fatto centro.”

“è stato un tentativo.”

“quanti uomini dobbiamo uccidere per progredire di un’inezia?”

“quanti uomini vengono uccisi senza progredire per niente?”

“a volte mi sembra di parlare con Platone.”

“ma quello sei tu: Platone con la barba da ebreo.”

a quel punto rimaniamo in silenzio e il problema resta insoluto. intanto i bassifondi pullulano di disincanti e di negletti; i poveri muoiono nei reparti dei poveri a causa della penuria di medici; le carceri sono così piene di malati di mente e di dannati che non ci sono abbastanza brande e i prigionieri devono dormire per terra, offrire assistenza è un atto di misericordia che può non durare e i manicomi sono pieni zeppi per colpa di una società che usa gli esseri umani come pedine su una scacchiera…

è un cazzo di privilegio essere un intellettuale o uno scrittore e osservare queste gentilezze, finché non è il TUO culo ad essere nel tritacarne. questa è la cosa che non va negli intellettuali e negli scrittori – non sentono un cazzo di niente se non la loro stessa agiatezza e il loro dolore, il che è normale, ma merdoso da far schifo.

“e il parlamento,” dice il mio amico, “crede di poter risolvere qualcosa con il controllo delle armi.”

“già. in realtà sappiamo bene chi ha usato gran parte delle armi. ma non siamo sicuri su chi ha usato le altre. l’esercito, la polizia, lo stato, o qualche altro pazzo? ho paura a indovinare perché potrei essere io il prossimo e c’è qualche sonetto che vorrei finire prima.”

“non credo che tu sia importante fino a questo punto.”

“ringrazio dio per questo, rabbino.”

“credo, però, che ci sia una punta di codardia in te.”

“sì, è vero. un codardo è un uomo che riesce a prevedere il futuro. un uomo coraggioso quasi sempre è privo di immaginazione.”

“qualche volta penso che TU saresti un bravo rabbino.”

“non credo. Platone non aveva la barba da ebreo.”

“fattene crescere una.”

“beviti una birra.”

“grazie.”

e da lì diventiamo silenziosi, è un’altra serata strana. la gente viene da me, parla, mi aggiorna: i futuri rabbini, i rivoluzionari con i loro fucili, l’FBI, le puttane, le poetesse, i giovani poeti dell’Università della California, un professore della Loyola che si trasferisce in Michigan, un prof dell’Università della California che si trasferisce a Berkeley, un altro che abita a Riverside, tre o quattro ragazzini in viaggio, veri barboni con i libri di Bukowski impilati nel cervello… e per un po’ ho pensato che questa tribù si sarebbe intromessa e avrebbe assassinato i miei momenti preziosi, ma sono stato fortunato, fortunato perché ogni uomo e ogni donna mi ha portato qualcosa e mi ha lasciato qualcosa, e io non devo più sentirmi un Jeffers dietro a un muro di pietra, e sono stato fortunato anche per un altro verso, perché la fama che ho è molto nascosta e tranquilla e difficilmente diventerò un Henry Miller con la gente che campeggia sul suo prato davanti, gli dèi sono stati molto buoni con me, mi hanno mantenuto vivo e uguale a me stesso, ancora scalciante, che prendo appunti, osservo, percepisco la bontà della gente buona, sento il miracolo che mi corre sulle braccia come un topo matto. una vita così mi è stata donata all’età di 48 anni, sebbene il domani non sappia di essere il sogno dolce dei sogni dolci.

Il ragazzo si alza piuttosto pienotto di birra, il rabbino di domani che tuona sul tavolino della colazione della domenica mattina.

“devo andare. ho lezione domani.”

“certo, ragazzo, stai bene?”

“sì. sto bene. mio padre mi ha detto di salutarti.”

“dì a Sam di tenere duro. tutti dobbiamo farcela.”

“hai il mio numero di telefono?”

“sì. impresso sul mio capezzolo sinistro.”

lo guardo andarsene. giù per gli scalini. un po’ grassoccio. ma sta bene così. potere. eccessivo. brilla e romba. diventerà un bravo rabbino. mi piace molto. se ne va, poi non lo vedo più, e mi siedo per scriverti questo. cenere di sigaretta su tutta la macchina da scrivere. per farti sapere come vanno le cose e cosa succederà di qui a breve. vicino alla mia macchina da scrivere ci sono due scarpette bianche di bambola lunghe poco più di un centimetro. mia figlia, Marina, le ha lasciate lì. è in Arizona da qualche parte in questo momento, con una madre rivoluzionaria. siamo nel luglio 1968 e io pesto sui tasti mentre mi aspetto che sbattano giù la porta e di vedermi davanti due uomini dalle facce verdi con occhi color gelatina ammuffita, sangue freddo, mitra spianati. spero non si facciano vivi. è stata una serata d’incanto. e solo qualche pernice solitaria ricorderà il rotolio dei dadi e il modo in cui sorridevano le pareti. buonanotte.

“Storie di ordinaria follia”, Charles Bukowski

Facebooktwitterpinteresttumblr