Storie di ordinaria follia (pag. 312 -314)

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Avevo visto più pazzi fuori – da qualsiasi parte guardassi: tavole calde, fabbriche, uffici postali, negozi di animali, partite di baseball, uffici di politici – di quanti ne abbia mai visti lì dentro. A volte ti chiedevi perché si trovassero lì. C’era un tizio, di un certo livello, potevi parlare di tutto con lui, Bobby si chiamava, sembrava normale; infatti sembrava molto più normale di qualche strizzacervelli che in teoria doveva curarci. Non potevi parlare a lungo con uno strizzacervelli senza sentirti pazzo anche tu. La ragione per la maggior parte degli strizzacervelli diventa strizzacervelli è che si preoccupano delle proprie menti. E analizzare la propria mente è una delle cose più folli che possa fare un uomo matto, tutte le teorie che dicono il contrario sono stronzate. Ogni tanto qualche matto chiede una cosa tipo:

“Ehi, dov’è il dottor Malov? Oggi non l’ho visto. È in vacanza? O magari è stato trasferito?”.

” È in vacanza,” rispondeva un altro matto, “e si è trasferito.”

“Non capisco.”

“Coltellaccio da macellaio. Polsi e gola. Non ha lasciato neanche due righe.”

“Era un ragazzo così gentile.”

“Oh, cazzo, è vero.”

Questa è una cosa che non sono mai riuscito a capire. Voglio dire i pettegolezzi che girano in posti così. I pettegolezzi non mentono. Nelle fabbriche, nelle grandi strutture come questa… la parola rimbalza: così e cosà è successo a questo e a quello; e ancor peggio, si sentivano cose che poi risultavano vere giorni o settimane prima che succedessero – il Vecchio Joe che era lì dentro da vent’anni sarebbe stato dimesso, o tutti saremmo stati dimessi, o cose di questo genere, ed era sempre vero. Un’altra cosa sugli strizzacervelli, ritornando a parlare di strizzacervelli, è che non sono mai riuscito a capire perché dovevano andarci giù pesante quando avevano tutte quelle pasticche a portata di mano. Non ce n’era neanche uno con il cervello lì in mezzo.

Be’, comunque sia, tornando al punto – i casi in via di risoluzione (cioè, voglio dire quelli che erano prossimi alla guarigione) potevano uscire dalle 2 del pomeriggio di lunedì e di giovedì e dovevano rientrare alle 5 e mezzo dello stesso giorno o perdevano i loro privilegi. La teoria che stava dietro a questa cosa era che ci si poteva adattare lentamente alla società. Sai, invece di saltare direttamente dal reparto malati di mente in mezzo alla strada. Bastava dare un’occhiata là fuori e sembrava di essere ancora dentro. Una semplice occhiata a tutti gli altri pazzi lì fuori.

Mi concessero i miei privilegi del lunedì e del giovedì, e in questi due pomeriggi andavo da un medico un po’ sul losco che conoscevo e facevo il pieno gratuitamente di anfetamine, benzedrina, metanfetamina, arcobaleni, Librium e compagnia bella. Poi le vendevo ai pazienti ricoverati. Bobby le mangiava come fossero caramelle e Bobby aveva un sacco di soldi. A dire il vero erano in molti ad avere i soldi. Come dicevo, spesso mi chiedevo come mai Bobby fosse lì dentro. Era praticamente normale in quasi tutti i suoi comportamenti. Aveva solo una piccola mania: di quando in quando si alzava in piedi, si metteva le mani in tasca e arrotolava i pantaloni più su che poteva e faceva otto o dieci passi fischiettando un motivetto stupito. Un motivetto che gli ronzava per la testa; non melodico per forza, ma qualche nota, sempre le stesse. Durava solo pochi secondi. Era l’unica stranezza che aveva. Ma la ripeteva magari venti o trenta volte al giorno. Le prime volte che lo vedevi pensavi che stesse scherzando e pensavi, mio dio, che tipo meraviglioso.

Poi dopo un po’ capivi che doveva farlo.

“Storie di ordinaria follia”Charles Bukowski

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