Parlami d’amore (pag. 367 – 370)

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Parlami d'amore

La donna aveva mosso un passo disperato verso di lui e si era attaccata al suo braccio. «La prego professore… volevo sapere di mio figlio…» aveva supplicato con il suo strano accento.
Il sultano si era liberato dalla sua mano rugosa con gesto brusco e imperioso aveva gridato con voce tonante «Signora, la smetta! Le ho già detto che suo figlio ha il cancro! Con tutte quelle metastasi neanche il Padreterno può farci qualcosa!» e le aveva voltato le spalle.
La donna non si era ribellata a quello stupro verbale. Semplicemente, si era accartocciata su se stessa, assumendo lo stesso aspetto della sua busta di plastica rotta abbandonata sulla sedia. Poi si era allontanata, aveva girato le spalle ai due medici e silenziosamente, per non causare disturbo, aveva cominciato a piangere.
Io mi ero alzata e, senza dire una parola, l’avevo abbracciata. E al primo contatto con quel corpo minuto e tremante, i miei pezzi avevano iniziato a scollarsi. A velocità frenetica la mia mente aveva messo insieme il collage della mia emotività martoriata e l’aveva fatto esplodere.
Si viene al mondo gridando. E io avevo cominciato a gridare. E mentre inveivo contro quel sultano immondo, mentre gli dicevo che gente come lui non aveva il diritto di vivere, che mi faceva schifo, che l’avrei fatto radiare, che gli auguravo di soffrire come ora stava soffrendo quella donna, mentre lo maledicevo e insultavo e la vecchina diceva «no, no» impaurita e sconvolta, avevo cominciato a singhiozzare. Perché tutto il dolore del mondo era entrato dentro di me e ora mi stava dilaniando senza pietà, sgretolando tutte quelle parti di Nicole che fino a quel momento avevo cercato di tenere insieme con la forza di volontà.
«Io spero che tu a casa abbia qualcuno che ami» avevo urlato piangendo, «e che un giorno anche tu ti trovi davanti a uno stronzo in camice bianco che distrugge la tua vita con due parole.»
«Questa donna è pazza, chiamate qualcuno» aveva detto lui mascherando il suo imbarazzo e la sua ira con un’aria di disprezzo superiore, e si era girato per andarsene.
Io l’avevo agguantato per una manica e per un momento avevo visto un lampo di timore nei suoi occhi. «Tu non te ne vai, stronzo. Tu ora parli con questa donna come se fosse un essere umano» gli avevo gridato cercando di trascinarlo verso di lei. Il suo collega si era messo in mezzo tentando di fermarmi, io avevo sgomitato e l’avevo inavvertitamente colpito al labbro, spaccandoglielo.
A quel punto era avvenuto tutto velocemente. Erano arrivati due infermieri che mi avevano immobilizzata, era arrivato il poliziotto di guardia, e il sultano si era allontanato insieme al suo collega col labbro sanguinante gridandomi che ero un pericolo, che mi avrebbe denunciata e fatta rinchiudere.
Così mi hanno portata qui. Davanti a un poliziotto che beve troppi caffè e che non butta i bicchierini. Qui, di fronte alla firma di Giuseppe Limberi, primario di oncologia. Che mi ha denunciata per aggressione.
Te l’avevo detto di non abbracciare nessuno. Sei troppo fragile.
No. Sono solo esausta. E stanca di combattere una battaglia senza senso.
Suo figlio ha il cancro. Nemmeno il Padreterno lo può salvare.
Anche quella donna un giorno deve aver guardato il suo bambino appena uscito dal mistero. Con la crosta lattea fra i capelli e i pugni chiusi a difendere i ricordi di quel mondo.
Sarebbe stato più intelligente esserle d’aiuto in un altro modo. Pensi di averle fatto del bene?
Non lo so. Non sono intelligente. Solo stanca.
Stanca di combattere una battaglia senza senso.
Ricomincio a piangere. Senza singhiozzi. In silenzio, come quella donna.
Ho il corpo pesto, il viso gonfio, la voce rauca e le palpebre così pesanti che quasi non riesco a tenere gli occhi aperti.
Non m’importa che mi veda così.
C’è solo lui. E io non ne posso più.
Farebbe bene a chiamare qualcuno che la venga a prendere.
C’è solo lui.
Afferro il ricevitore del telefono con mani tremanti e compongo il numero di un cellulare che ho sempre saputo a memoria.
«Sasha» dico con voce afona appena si aggancia la comunicazione.
Uno squillo. Due, tre, quattro.
«Sasha» singhiozzo a bassa voce, mentre mi cola il naso e le lacrime mi inondano gli occhi e poi scendono a riscaldarmi le guance.
Gli squilli si rincorrono all’infinito.
«Sasha» ripeto mentre nessuno mi risponde.
E dire che quel nome per me è già una preghiera.

– “Parlami d’amore”, Silvio Muccino e Carla Vangelista

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